SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Capitolo IX (II parte)

LA CITTA' DEI ROMANTICI

a) La città di Chateaubriand

Come romantico, e stavolta in opposizione al Settecento quasi dichiarata, è l'apprezzamento di Chateaubriand, sia per l'unione della città ai campi (propiziata dalla prospettiva di molte strade romane, da cui si scoprono i colli circostanti), sia per la sovrapposizione storica di architetture diverse che Roma costituisce, sia infine per un genere "raro" e nello stesso tempo nuovo di sensazioni, che solo una città come Roma (niente affatto distinta dai "campi" come città più recenti) può regolare:

«Ai rumori soliti delle grandi città si uniscono qui i rumori dell'acque, che si odono d'ogni parte, come se si fosse presso le fontane di Bandusia o d'Egeria» (224).

E' a questo luogo, in particolare, che si lega la nota di M.me De Stael sulle fontane di piazza San Pietro, e di essa probabilmente si ricorda anche lo Stendhal del 1827, quando avverte che sensazioni simili sono destinate, ovviamente, soltanto a chi non arrivi a San Pietro "en Voiture" (225).

«Percorrendo questa città di morti, un'idea mi occupava. Via via che si scava qualche edificio a Pompei, si prende ciò che dà lo scavo, utensili domestici, strumenti di mestiere, mobili, statue, manoscritti e si ammucchia tutto al "Museo Portici". Secondo me, vi sarebbe qualche cosa di meglio da fare e cioè lasciare le cose nel luogo dove si trovano, rimettere i tetti, le soffitte, i pavimenti e le finestre, per impedire la rovina degli affreschi e dei muri; rialzare l'antica cinta della città, chiuderne le porte; porvi quindi una guardia di soldati con alcuni dotti. Non sarebbe questo il più meraviglioso museo della terra? Una città romana conservata intera, come se gli abitanti ne fossero usciti da un quarto d'ora? Si imparerebbe meglio la storia domestica del popolo romano e della sua civiltà in poche gite a Pompei restaurata che non con la lettura di tutte le opere antiche, (...) Ciò che si fa oggi mi sembra rovinoso: tolte ai loro luoghi naturali, le curiosità più rare si seppelliscono in stanze, nelle quali non vivono più in armonia con gli oggetti che le circondavano. Del resto, gli edifici scoperti a Pompei cadranno fra poco; le ceneri li hanno inghiottiti ma li han conservati; l'aria li frantumerà, se non vi si pone rimedio. In ogni paesi i monumenti pubblici, alzati sontuosamente con pezzi di granito e di marmo, han soli durato contro l'azione del tempo; ma le abitazioni domestiche, le ville propriamente dette, crollarono, perchè un privato cittadino non può concedersi il lusso di fabbricare per l'eternità» (226).

A parte l'idea specifica che di restauro qui mostra di avere Chateaubriand, e a parte che questa idea può a sua volta sfociare in una nuova edizione del museo, sta di fatto che passano certamente per di qui anche le attuali percezioni sulla sistematica straniazione degli oggetti (e degli stessi fruitori) che una civiltà museale comporta. Finisce, così, per dovere molto già a questo Chateaubriand del 1803 uno dei nostri discorsi più avanzati in materia, e cioè quello che tende ad identificare il restauro con il riuso e il recupero con il riabitare, idee invece del tutto estranee sia al Settecento sia all'Illuminismo.

Neanche a dire che queste idee pompeiane del 1803 saranno anche quelle dello Chateaubriand del 1828, in nuove occasioni romane. Dove, per esempio, nel 1739, Charles de Brosses aveva lamentato che la Trasfigurazione di Raffaello poco risaltasse nella chiesa di San Pietro in Montorio, caldeggiandone la sistemazione in un museo, (227) Chateaubriand, ad avvenuta museificazione del quadro, scrive (ed è, in cinque righe, un piccolo saggio di estetica):

«I capolavori dei grandi maestri, così seminati nel deserto, riempiono l'anima di una profonda malinconia. Mi duole che si siano raccolti i quadri di Roma in un Museo: avrei preferito cercare pei declivi del Gianicolo, sotto la caduta dell'Acqua Paola, traverso la via solitaria delle Fornaci, la Trasfigurazione nel monastero dei Francescani di S. Pietro in Montorio. Quando si osserva il luogo che occupava, su l'altar maggiore della Chiesa, il fregio dei funerali di Raffaello, il cuore è preso da tristezza» (228).

Dove, oltretutto, è estremamente evidente quella tipica attenzione al contesto, anche fisico oltre che storico e culturale che distinguerà tutto il Romanticismo.

Ma lo Chateaubriand di questi anni è ormai un romantico a tutto tondo, e basterebbero a testimoniarlo le pagine su Venezia: un'autentica scoperta.

Intanto, già nello sguardo generale sulla città, lo stesso motivo illuministico della folla, delle vele e delle gondole sul Canal Grande e a Piazza San Marco, non si appaga di se stesso ma slargandosi nel quadro del cielo e del mare, sbocca nell'ultima frase, fatta tutta delle parole, ormai profondamente nuove, "immaginoso", "capriccio", "sogno", "prodigio", "fantasia", "orientale":

«Quando si risale il Canal Grande, tra le due folle dei suoi palazzi, così improntati dai loro secoli, così vari di architettura, quando ci si porta su la gran piazza e su la piazzetta, si contemplano la basilica e le sue cupole, il palazzo dei Dogi, le Procuratie nuove, la Zecca, la torre dell'Orologio, il campanile di San Marco, la colonna del Leone e, insieme, le vele e gli alberi delle navi, il brusio della folla e delle gondole, l'azzurro del cielo e del mare, dobbiamo convenire che nulla di più immaginoso si trova nei capricci di un sogno o nei prodigi di una fantasia orientale»(229).

Così, lo stesso discorso dell'ogiva araba, la cui ascendenza Chateaubriand fa risalire alle tombe di Aro, (230), forse nasconde anche l'intento di nobilitare definitivamente quella "goticheria", tanto disprezzata dall'ideologia settecentesca del progresso (anche artistico).

E la stessa oscurità di San Marco, è interpretata in modo opposto a come la interpretava, per esempio, un de Brosses: essa non è più un residuo di caos superstizioso e sacrale dentro un universo che, laicamente, si vorrebbe sempre più chiaro e distinto, ma è una pausa di raccoglimento dentro la sterminata dispersione profana (la metafora del "cielo luminoso") - pausa tanto più gradita (Chateaubriand parla di "armonia") quanto più quella dispersione per avventura si contragga (la "fioca luce esterna" di quel 10 settembre 1833):

«In San Marco, cesellato di cupole, incrostato di mosaici, carico di incoerenti spoglie orientali, mi è parso di vedere, ad un tempo, San Vitale di Ravenna, Santa Sofia di Costantinopoli, San Salvatore di Gerusalemme e le più piccole chiese della Morea, di Chio, di Malta: San Marco, monumento di architettura bizantina, composito di vittoria e di conquista alzato alla Croce, è, come Venezia, un trofeo. L'effetto più notevole dell'architettura di San Marco è l'oscurità sotto un cielo luminoso: ma oggi, 10 settembre, la fioca luce esterna era in armonia con l'oscura basilica»(231)

Infine, un'ultima rivendicazione, stavolta in occasione del Duomo di Ferrara, della dignità del gotico: esso "inganna" solo quando è ridotto a sovrapposizione, a maschera (va, dunque, conservato - laddove sia possibile - nella sua interezza: ogni manomissione lo involgarisce - e con questo, il Settecento si allontana ulteriormente):

«La cattedrale inganna: sulla facciata e sui fianchi sono incrostati bassorilievi a soggetti sacri e profani. E vi sono anche altri ornamenti posti di solito nell'interno degli edifici gotici, come cannelli, modiglioni arabi, soffitte a nimbi, gallerie a colonnette, a ogive, a trifogli, lavorate nello spessore dei muri. Entrate e rimanete stupefatti nel vedere una chiesa nuova a volte sferiche, a pilastri massicci. Qualche cosa di simile esiste in Francia e fisicamente e moralmente: nei nostri vecchi castelli si fanno camerini moderni, molte camerucce, alcove e guardarobe. Così, se penetriamo nell'anima di molti uomini decorati di nomi storici, vi troveremo tendenze d'anticamera. Io rimasi stordito all'aspetto di questa cattedrale che sembrava essere rivoltata come un abito messo al rovescio: borghese del tempo di Luigi XV, mascherata da castellana del XII secolo» (232)

Del resto, lo Chateaubriand di questi anni è ormai sul punto, tanto avanzato dentro le ragioni romantiche, da abbozzare, un'interpretazione (di nuovo) di Venezia, che tornerà decisiva, per esempio, per capire un Ruskin:

«(Non si vede a Venezia,) ciò che si vede nel nord e nell'occidente di Europa, in mezzo ai progressi dell'industria, voglio dire gli edifici nuovi, le vie fabbriche in fretta, in cui le case o sono incompiute o vuote. Che cosa si potrebbe qui costruire? Miserabili bugigattoli, che svelerebbero la povertà di concezione dei figli, vicino alla magnificenza geniale dei padri; casupole bianche, che non arriverebbero al tallone dei giganteschi palazzi abitati dai Foscari e dai Pesaro. La cazzuola di calcina e la mano del gesso, che per un'urgente riparazione si sono applicate ad un capitello di marmo, ci offendono. Meglio le tavole tarlate, che sbarrano le finestre greche o moresche; meglio i cenci posti ad asciugare sopra artistici balconi, che l'impronta della mano infermiccia del nostro secolo» (233)

Questo ormai tardo Chateaubriand, dunque, abbraccia con estrema lucidità anche quell'anti-industrialismo, essenziale in quanto motivazione di fondo di tutt'intera la reazione romantica all'illuminismo, ed esalta Venezia proprio perchè si tratta di una città secondo lui inaggredibile, per la sua particolarissima morfologia, dalle trasformazioni industriali.

Quasi inutile, inoltre, sottolineare quella frase - "la mano infermiccia del nostro secolo" (rispetto a una presunta "sanità" di tutti gli antichi) - che riflette un'ideologia la quale apparenta Chateaubriand a un Leopardi e ad uno Stendhal, per arrivare, ancora una volta, fino a Nietzsche: un'ideologia, insomma, che diventa un'altra delle fondamentali del Romanticismo.

La storia delle nostre città non sembra essersi sviluppata sulle linee di gusto di Chateaubriand. La stessa Venezia, aggredita anch'essa dalla speculazione capitalistica, si sarebbe almeno in parte trasformata, smentendo le sue previsioni (come quelle di Ruskin). Una nota di Bernard Berenson del 1948, suona così:

«Nelle giornate d'oro come quella di ieri e di ieri l'altro, Venezia ha un incantesimo, una radiosità irreale, come il mondo delle fate. Quasi non ci si crede, pur vivendola! Un così completo artefatto, tutto opera dell'uomo, salvo la terra, l'acqua e il cielo. E che suprema opera d'arte in ogni dettaglio, anche il più sordido. Purtroppo, le esigenze della vita moderna, ancora più un feticcio in Italia che altrove, stanno distruggendo a poco a poco l'armonia dell'insieme, costruendo case che, per l'altezza e l'apparenza massiccia, non rientrano nel disegno, interrompono la linea dei tetti, ingombrano la vista delle chiese e dei palazzi. E peggio ancora: l'aver reso Venezia accessibile dalla terra ferma, ha privato il viaggiatore del senso di qualche cosa di speciale, quasi di sacro, che sentiva quando, sull'acqua, si avvicinava a Venezia.» (234)

Ma il fatto che il gusto di Chateaubriand abbia subito tali scacchi storici, non significa affatto ch'esso sia nato morto, non moderno, o comunque destinato esso medesimo a rapide museificazione: tant'è vero che noi oggi, nel momento in cui soffriamo in modo particolarmente acuto il passaggio dalla città meccanica alla città elettrica, siamo in grado, forse, di capirne e apprezzarne certi risvolti molto più di ieri.


(224) CHATEAUBRIAND, Viaggio in Italia, p. 63.

(225) STENDHAL, Promenades dans Rome, cit., vol. I, p. 111.

(226) CHATEAUBRIAND, Viaggio in Italia, cit., p. 56.

(227) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p. 223.

(228) CHATEAUBRIAND, Memorie d'oltretomba, Passeggiate romane, vol. cit., p. 101. E' per Chateaubriand che passano anche le convinzioni sul museo d'un PAUL VALERY e di THEODOR W. ADORNO, che così scrive (in Minima moralia, trad. it. RENATO SOLMI, Torino, Einaudi, 1974, pp.110-111): "Gli oggetti preziosi di cui i più ricchi riempiono le loro dimore, aspirano - derelitti e spaesati - al museo, che pure - come vide Valery - uccide il senso delle statue e dei quadri, a cui solo la madre architettura assegnava il giusto posto".

(229) CHATEAUBRIAND, Memorie d'oltretomba, cit., p. 105-106.

(230) Ibid. p.110.

(231) Ibid. p.111.

(232) Ibid. p.128.

(233) Ibid. p. 107-108.

(234) BERNARD BERENSON, op. cit., p. 71.


Theorèin - Luglio 2007